Nadal, what else?

Aristotele diceva: “Siamo ciò che ripetiamo ogni giorno”. Rafael Nadal è un campione. Tutti i giorni. E vederlo sventolare, sorridente, la Coppa di S.A.S le Prince Souverain su un campo Ranieri III inondato di sole, par la sua 11a volta, costituisce la prova inconfutabile che la routine può essere a volte toccante. E anche utile. Alcuni si seccheranno per il suo dominio schiacciante, pretenderanno di non tremare più davanti a degli incontri, finali comprese, dalla suspense limitata e spereranno, anche i più arrabbiati, che un granello di terra vada a inceppare il suo impeccabile e implacabile meccanismo da qui al Roland -Garros. Invece che accumulare superlativi, che comunque Rafa merita davvero, per farli tornare in loro (e alla passione), è bene ricordare che nello sport, nessun palmarès si è mai ottenuto per caso. Ancor meno per caso Rafael Nadal è il n° 1 al mondo, a 31 anni. Ha ottenuto 31 titoli in Masters 1000 (record). Più del 92% di vttorie su terra battuta. Lo spagnolo ha vinto gli ultimi 36 set giocati su questa superficie, senza mai concedere più di 4 giochi.

Ha vinto il suo 11° Rolex Monte-Carlo Masters (nessun altro giocatore ha raggiunto questa performance in un altro torneo), il quinto senza lasciare una manche per strada (dopo il 2008, 2009, 2010 e 2012). Irreale. Eppure, il Manacori si è allenato con la stessa intensità per 15 anni. Durante questa 112a edizione, come non ricordare quella scena divertente di Nadal che invia uno sms dal campo al suo coach Carlos Moya subito dopo la sua vittoria contro Grigor Dimitrov in semifinale, chiedendogli di prenotare subito un campo perché non era non soddisfatto della sua prestazione. Lavoro. Umiltà. Rimettersi in causa sempre.

Rafael Nadal ha un’altra particolarità. Dubita costantemente. Durante i primi momenti della finale, si è sentito titubante e ha persino concesso il primo break, 2-1 a Nishikori su un passing di rovescio. Ma il giapponese non è stato in grado di mantenere il suo impegno (debacle su un doppia fallo) e lo spagnolo non ha più mollato la presa. A intermittenza, Nishikori è riuscito a sorprenderlo, con una smorzata qui, una risposta con un buon tempismo là. Intenzioni lodevoli. Salutato da forti applausi da parte degli spettatori affamati di spettacolo. Ma invano. Dopo venti minuti, Nishikori, martoriato dalla potenza del lift di Rafa, cercava di rilassarsi il polso destro che lo aveva tenuto lontano dal circuito per cinque mesi dell’estate 2017 e inizio stagione 2018. Il miracolo non sarebbe successo. Aveva capito. Sarebbe potuto diventare, anche se è aneddotico, il primo giocatore della storia a vincere nello stesso anno un torneo di Challenger e un Masters 1000. Ancora più forte del ritorno dal nulla di Pablo Andujar la settimana precedente (successo a Marrakech dopo un challenger ad Alicante). L’exploit sarebbe stato ovviamente altrove, nell’abilità di far cadere Re Nadal sulla terra battuta. Ma il divario era grande. Troppo grande Quasi abissale.

Rassicurato dalla prima manche vincente (6-3 in 56 minuti), Nadal ha accelerato ancora un po’ il ritmo nel secondo. E ha concluso la sua opera dopo 1h33 con un rovescio vincente. Simbolico dato che questo colpo, a lungo considerato meno efficace del suo dritto, ha fatto enormi progressi dall’inizio della sua carriera. Arma precedentemente difensiva e di rimessa, questo rovescio, da alcune stagioni, gli consente di far male. Molto male.

Rafael Nadal non aveva più giocato sul circuito dopo il suo ritiro nei quarti di finale dell’Open di Australia contro Marin Cilic. Ritrovando la sua amata terra battuta, il maiorchino ha riacquistato il suo sorriso e il suo successo. I suoi avversari un po’ meno. Roger Federer, quanto a lui, deve essere contento sul suo divano di aver rinunciato alla stagione sulla terra rossa. Anche se avremmo tanto voluto, noi appassionati di tennis, che lo svizzero osasse sfidare il suo rivale preferito sul suo terreno.

 

 

 

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